Ogni volta che ritorno da Figline Valdarno sono come attraversato da una duplice sensazione, positiva e negativa, è come se da un lato qualcosa mi riempisse, e dall’altro qualcosa mi svuotasse. Io non sono tra i più vecchi frequentatori dei corsi residenziali di Figline, sono solo tre anni che li seguo con continuità. Oggi si è arrivati alla XVIII edizione, non ho avuto l’occasione di poter incontrare in quei luoghi, i maestri di cui tanto l’atmosfera di quei posti e di quei momenti è pervasa: Bruno Callieri, Arnaldo Ballerini e Lorenzo Calvi. Vedo in Gilberto Di Petta sempre vivo e vitale quel ricordo, ma si manifesta in tutta la sua pienezza quel fruscio di vento che riempie le vele e conduce verso nuovi orizzonti. Sento di Giampaolo Di Piazza l’aderenza al progetto essenziale della Società Italiana per la Psicopatologia Fenomenologica, quello di tenere insieme le “fronde sparte”. È come se tutti rispondessero al richiamo all’essere eterni debuttanti, che restituisce quella quota di giovinezza che non va mai perduta del tutto, proprio nei luoghi in cui ebbe i natali il filosofo Marsilio Ficino che nel testo Sopra lo Amore dice: “La giovinezza essendo a la voluttà inclinata non si piglia se non con l’esca del piacere: perché fugge i rigidi maestri.”
Dopo anni in cui il Palazzo Pretorio ha fatto da cornice agli incontri, da quelle stanze che nell’ottocento furono riconvertite a carcere, ci ritroviamo adesso in una dimora costruita sul finire del 1300, un posto che ha conservato la dimensione del rifugio, per la quale a quei tempi fu costruita per stare lontani dai rumori della città. Nelle cui stanze ritrovarono ristoro, negli anni del Risorgimento anche i reali di Spagna e del Regno delle due Sicilie: Villa Casagrande. I corsi si tengono in quel luogo che una volta era la sala d’arme, dove non solo erano conservate le armi ma dove si impartivano lezioni sul loro uso: l’arte del combattimento che si insegna a bottega. Non so se sia stato il caso, o una strana volontà nascosta, ma sembra essere a bottega dai maestri e dalle maestranze.
Il corso residenziale di Figline Valdarno è il suono, l’eco della Scuola Italiana di Psicopatologica. Una formazione che dura nel tempo, senza una fine predefinita, che si rinnova con i tempi, che resta veglia come una sentinella. In cui viene restituito al “chiedere” al “domandare”, il vero potere trasformativo. Quello che passa non sono solo le informazioni, i vissuti dei relatori, le abili riletture dei “discussant”, ma soprattutto quello scuotimento atmosferico di chi ascolta, che sente dentro muoversi qualcosa, che crea le condizioni per il “domandare” ed il “chiedere”. Talvolta ci si riesce, talaltra si cade in ulteriori riletture, ma la cosa importante è che si creano le condizioni possibili per addestrarci a saper usare queste uniche armi di cui nella relazione terapeutica possiamo avvalerci, al fine di poter aprire i varchi, creare i guadi, verso progetti di mondo possibili.
Questi primi due incontri, dei sette totali, hanno visto alternarsi maestri e maestranze, da entrambi abbiamo raccolto esperienze vissute, ed abbiamo tentato di costruire dentro di noi quello spazio, quel tempo, quel mondo su cui far poggiare le riflessioni, che diventando nostre assumendo il carattere di meditazioni, per giungere ad affilare e caricare le armi del domandare e del chiedere.
Nel corso dell’incontro del 9-10 marzo c’è stata la nomina a Presidente Onorario della Società Italiana per la Psicopatologia Fenomenologica di Filippo Maria Ferro, è stato un momento intenso, l’emozione degli uni affezionavano quelle degli altri, rendendo l’atmosfera affettiva e sotto certi versi ed entro certi limiti familiare.
La presentazione del prof. Ferro è stato un viaggio nell’arte figurativa, mostrandoci in maniera magistrale come l’arte è allo stesso tempo oggetto del comprendere e soggetto che comprende.
Ascoltare il prof. Del Pistoia significa lasciarsi attraversare non solo dai contenuti del suo discorso, ma anche dai modi attraverso cui il discorso si dà, dove trapela sempre e comunque una certa passionalità, per il fare e il saper fare. Il dott. Delladio, riproponendoci quella che fu la sua tesi sulla Rivista Comprendre, ci ha riportati inevitabilmente sui temi che nella rivista vengono ripresi. Il prof. Dalle Luche ci ha accompagnati per mano nei sui studi di “patografia”, in quell’incrocio tra arte e psicopatologia, dove talvolta l’una presta il volto all’altra e talaltra accade che una delle due aiuta a disvelare l’altra. Ad aprile, il 13-14, abbiamo avuto in cattedra Leonardo, Alessandra, Gaetano e Francesca, il momento della clinica del quotidiano, degli operatori sul campo, di quelli che giorno dopo giorno attraversano i servizi di salute mentale. Il dott. Zaninotto ha lasciato emergere attraverso la metafora gastronomica, non solo la costatazione dello stato dell’insegnamento della psichiatria, ma anche un profondo desiderio di un ritorno all’insegnamento a bottega dai maestri.
Il tema dell’autolesionismo è stato declinato e sviluppato dalla dott.ssa D’Agostino a 360°, permettendoci letteralmente di affacciarci sul problema.
Il dott. De Mattia, ha saputo lasciar parlare i fatti, i luoghi e i vissuti, un’operazione sotto certi versi audace che è stata mirabilmente eseguita.
Home Treatment in Ticino non è solo un’esperienza che trae le sue origini da altre esperienze analoghe, la dott.ssa Aletti è riuscita a presentarla come un’ulteriore possibilità di cura, in cui si pone l’operatore ed il paziente in un continuo riconsiderare le proprie posizioni attive e passive.
Gli incontri di Marzo ed Aprile sono stati moderati in maniera magistrale e con un coinvolgimento personale e professionale da Di Petta, Rossi Monti, Fusilli e Aragona, il cui contributo ha arricchito ulteriormente.
Dopo questi brevi cenni sugli accadimenti resta da soffermarsi su quanto annunciavo all’inizio, in merito alla duplice sensazione. Ebbene sì, i corsi residenziali di Figline Valdarno mi rendono, ci rendono “stranieri”, come Meursault di Camus, scopriamo ogni volta sempre come fosse la prima, quanto lo straniero in noi rimane tale fino a quando un accadimento non lo mette in luce, facendoci uscire dall’ombra da cui da sempre soggiorniamo.
Frida Kahlo è diventata un’icona femminile del ‘900 per molteplici aspetti che travalicano anche il valore della sua opera artistica, nota soprattutto per l’ossessiva ricerca identitaria che la permea in relazione ai numerosi avvenimenti traumatici e passionali della sua vita. A ben vedere, tuttavia, il valore di quest’opera nasce soprattutto dagli aspetti formali, che propongono una rappresentazione del proprio corpo assolutamente non convenzionale, che mette in scena i vissuti femminili più intimi in una commistione di immagini che rinviano alle tre figure fenomenologiche del corpo: il Körper (il corpo fisico, naturale), il Leib (il corpo soggettivo e intenzionale), e il corpo pretematico e patico (la carne). Si tratta di una modalità assolutamente non convenzionale della rappresentazione di Sè che non ha precedenti nella storia dell’arte e che contribuisce enormemente al suo fascino perturbante. L’opera pittorica di Frida è quindi un’ottima via d’accesso per la riflessione su un campo finora relativamente trascurato della fenomenologica, quello dei vissuti carnali.
Summary
Frida Kahlo has become a female icon of the twentieth century thanks to her passionate and turbolent life, but especially for her avantgarde artistic work. If most of her paintings (but also shots and short movies) refer to her biographical traumatic events, stirring up a fascinating hermeneutical circular investigation, it is overall the formal way she uses to represent herself to be striking: her self-portraits disregard common aesthetic canons and aim to reveal her more intimate female subjective experiences mixing the representation of her body as natural body (Körper), subjective and intentional body (Leib) and pre-thematic and pathic body (Fleisch, ing. Flesh). This mix concurs in perturbing and fascinating the observer. Frida Kahlo’s paintings represent a very easy and smart adit to reflect on the phenomenology of the flesh, a topic which claim for much more attention and research.
Parole chiave
Frida Kahlo, fenomenologia del corpo, ipocondria, disturbo da stress post-traumatico
Ermeneutica vs. fenomenologia nell’opera di Frida Kahlo
La pittura di Frida Kahlo ha conquistato nel corso degli anni una popolarità universale non certamente per la qualità pittorica -lei era poco più di un’autodidatta-, quanto per la particolarità dei suoi contenuti. Frida Kahlo è divenuta un’icona femminile straordinaria attraverso una continua, spietata riflessione sulla propria immagine e la propria identità di donna, una sorta di perpetua autoanalisi testimoniata anche da scritti diaristici o epistolari di straordinaria qualità espressiva. Se si è espressa principalmente ma non esclusivamente con la pittura su tela e su carta, la sua arte coinvolgeva anche il suo corpo, come modella e proto-artista corporea e un po’ tutto il suo modo di vivere testimonia dello spessore della sua creatività e del suo pensiero. I contenuti affascinanti e talora perturbanti dei suoi quadri, in gran parte autoritratti figurativi e allegorici, nella sostanza veicolano profondi vissuti femminili personali ma universalmente condivisibili e un percorso ideologico-religioso-filosofico, un peculiare sincretismo tra religioni, ideologie, panteismo e ateismo laico che si è evoluto per tutto il corso della sua non lunga vita (è morta a 47 anni).
Il libro su Frida Kahlo, scritto con Angela Palermo (2016) fu sollecitato anni fa da motivazioni molto prosaiche, cioè prendere Frida come esempio clinico delle trasformazioni di un’identità femminile spezzata da un grave incidente subito a 19 anni (Dalle Luche e Palermo, 2015), ed è principalmente il frutto di un procedimento ermeneutico che mette in luce come nella celebre artista messicana la vita e l’opera rinviino l’una all’altra costantemente, in un percorso di riflessione e ricerca di un’identità stabile a fronte di continue crisi: ogni volta che sembra sul punto di collassare, l’identità di Frida, grazie alle sue risorse creative e all’appoggio di molteplici figure significative, amanti, protettori, amiche, amiche/amanti e protettori/amanti, si riconfigura in forme sempre nuove. Il nostro lavoro ha anche consentito di identificare la commistione formale di elementi consci e inconsci, apparentemente inconciliabili (in accordo alla bi-logica di Matte-Blanco), che sorreggono l’impianto “surrealistico” della sua opera pittorica, per quanto commisto con numerosi altri generi e, soprattutto, diversamente dalla maggioranza dei surrealisti, chiarificabile dal lavoro interpretativo, cioè in buona misura riconducibile a chiare motivazioni consapevoli legate alle situazioni o alle occupazioni mentali del momento.
Ma al di là del valore testimoniale e biografico, la forza e la importanza sia estetica che euristica dell’opera di Frida si rivela, ad un primo impatto “pre-riflessivo”, per la innovativa (almeno per l’epoca) e sfacciata esposizione di temi perlopiù ritenuti “osceni” e sicuramente non estetici: vissuti corporei estremi (fisici e emotivi), riferibili a una integrità fisica e psichica in bilico sulla catastrofe dello smembramento (sia corporeo che affettivo), in riferimento sia al trauma stradale che ai traumi degli aborti; ma anche ad un’identità sessuale ambigua non solo per l’orientamento, ma anche per il modo di presentare il corpo femminile spesso in modo del tutto indifferente ai canoni dell’estetica. Frida Kahlo è divenuta celebre grazie al coraggio di sposare la soluzione insolita, anche se non del tutto inedita, di rappresentarsi non solo e non tanto come figura sociale o comunque come corpo intenzionale (Leib), come avviene in qualsiasi autoritratto, ma anche e soprattutto come corpo fisico (Körper) e, soprattutto, carne. Senza questa peculiarità espressiva che sorregge la sua capacità di stupire, di inquietare, di perturbare, di farci soffermare a riflettere, Frida sarebbe stata una delle migliaia di artiste del mondo intero che, da Artemisia Gentileschi a Tamara de Lampicka, si sono dedicate al ritratto, l’autoritratto e la rappresentazione del corpo femminile, con risultati spesso eccellenti, ma senza pretendere di oltrepassare i limiti esteticamente fruibili. Questa qualità essenziale della pittura di Frida deriva dal fatto di introdurre così spesso, soprattutto nei momenti emotivamente più difficili della sua vita, la rappresentazione del proprio Sé lacerato, smembrato, proprio attraverso la commistione della rappresentazione del corpo e della carne. Vedremo in alcuni quadri esemplari come ciò avviene. Diciamo però subito che tre sono le modalità di Frida di rappresentare la carne:
la prima è quella di dipingere e mostrare le parti corporee connesse alle funzioni vitali e alla riproduzione della vita , che di regola sono mantenute fuori scena (sono “oscene”) ed estranee alle finalità dell’estetica, tanto che quando compaiono in superficie determinano l’imbarazzo dello sguardo dell’osservatore, se non la ripugnanza, come è accaduto e tutt’ora accade a quadri perturbanti come L’origine del mondo di Courbet, alle foto degli organi genitali di Mapplethorne, ai sessi femminili giganteschi di Mattia Moreni;
il secondo modo è quello di mostrare gli organi del corpo, cuori, arterie, sangue, colonne vertebrali, bacini, uteri con feti, con una precisione anatomica e naturalistica impeccabile ma disgiunta totalmente da finalità conoscitive o didattiche mediche; questi organi interni sono incongruamente visibili alla superficie corporea, oppure sono completamente distaccati e dislocati dal corpo a cui appartengono, per essere posti in risalto ed acquisire significati simbolici (metaforici e metonimici);
una terza apparizione della carne in Frida, in due quadri appartenenti a due periodi diversissimi, è quella legata all’alimentazione carnivora, carni morte o già in putrefazione: nel primo quadro (Il mio vestito è appeso là, 1933 ) una massa sanguinolenta ed informe riempie un bidone dell’immondizia ad indicare l’opulenza della società americana (rispetto a quella messicana), destinata allo spreco e all’evacuazione (in questa direzione va il modernissimo, per l’epoca, w.c. sorretto dalla colonna).
Nel secondo (Senza speranza, 1945), relativo al periodo di anoressia e depressione sofferti da Frida, la stessa massa, nella quale si riconoscono teschi, polli, sfilze di salsicce, pesci, brandelli di carne informe che stravasano dall’enorme imbuto infilato nella sua bocca, è un’iperbole dell’alimentazione forzata e del vissuto dell’anoressica, per la quale gli alimenti non sono fonte di vita ma di ripugnanza e orrore, oggetti fobici : un quadro che in una sola immagine compendia tutti i vissuti dei soggetti che oggi si curano per i cosiddetti disturbi alimentari, anoressie di varia natura e/o forme di restrizione alimentare vegetariane, vegane o ortoressiche.
In ultima analisi capire il fascino di molti quadri di Frida pone la questione non così frequentata della rappresentazione e della percezione fenomenologica della carne, di qualcosa che, normalmente non si vede o viene nascosto nella vita come nella pittura tradizionale e che è in effetti un grande tema rimosso dalle nostre esistenze, al punto che, quando vi fa capolino, provoca un’intensa attivazione emotiva, spesso di rilevanza psicopatologica.
Abbozzo di una fenomenologia della carne
Se la fenomenologia del corpo ha una sua ricca tradizione novecentesca, generata da Husserl e dai suoi discepoli, basata sulla distinzione tra corpo soggetto/corpo persona/ corpo proprio (Leib) e corpo oggetto/corpo cosa/corpo fisico (Körper) (Galimberti 1983), molto più scarna, ci sia scusato il gioco di parole, è la letteratura fenomenologica sulla carne. A parte Michel Henry (2000), che, sulla scia di Husserl, Sartre e Merleau-Ponty, tenta di impostare un discorso rigorosamente fenomenologico dell’incarnazione, anche in senso religioso, ho trovato rilevanti riflessioni sulla carne sparse nell’opera non sistematica di Lorenzo Calvi, nel libro di Umberto Galimberti Il corpo (1983), e in alcuni spunti di Lacan e dei suoi epigoni tardivi. In occidente il pensiero sulla carne ha comunque due, fondamentali e vetuste radici: quella cristiana1 e quella anatomica e organicista, che spesso si introducono occultamente o implicitamente in molti dei discorsi dedicati al corpo.2
Se Galimberti (1983), riprendendo un celebre passo di Sartre (1942) sulla “carezza”, mostra la possibilità di una presentificazione della carne a partire dal corpo, soprattutto in relazione al desiderio sessuale, ma anche all’esperienza femminile della gravidanza. Tuttavia la carne di per sé resta una figura relativamente secondaria nel discorso fenomenologico. Calvi fa un enorme passo in avanti quando osa timidamente, in una nota ad un suo scritto (2013), esternare il suo pensiero sulla carne come “terza epifania della corporalità”, accanto al corpo oggettivo, anatomico e organico (Körper) e al corpo soggettivo o corpo vissuto (Leib): del primo la carne ha l’anonimia, del secondo l’irrealtà. Molti anni prima (Calvi 1983) aveva scritto che le tre epifanie del corpo, Körper, Leib e Carne “sono legate in una sincronia verticale che costituisce la consistenza dell’Io” . Nel testo del 2013 prosegue dicendo: “Sul piano eidetico, la carne è l’intuizione del magma fecale e viscerale. Sul piano ontologico, è lo stato originario, preintenzionale e pretematico del corpo (ovvero, in un altro passo a p. 91 “il corpo nell’oblio dell’intenzionalità, nel sonno originario, pretematico”), di cui, nella cultura occidentale, conosciamo la tematizzazione della tradizione giudaico-cristiana con tutto il suo correlato di impurità e di pesantezza, di peccato e di colpa. Nei disturbi mentali si ha consumo del Leib a opera della carne”, mentre, potremmo proseguire noi, nelle malattie fisiche principalmente si ha consumo del Leib ad opera del corpo fisico (Körper): si ha, cioè, la consunzione del corpo perché l’organismo è malato.
Da parte sua Lacan (1991) fa riferimento alla carne nell’acutissimo ed esilarante commento al celebre sogno di Irma di Freud (che segue la traccia interpretativa di Erikson) (Seminario II, 1954-5, pp. 195 e sgg). Nel sogno, è noto, Freud resta colpito dalla visione di una membrana biancastra nelle mucose orali della sua paziente. Commenta Lacan: “C’è qui un orribile scoperta, quella della carne che non si vede mai, il fondo delle cose, il rovescio della faccia, del viso, gli spurghi per eccellenza, la carne da cui viene tutto, nel più profondo del mistero, la carne in quanto sofferente, informe, in quanto la sua forma è per se stessa qualcosa che provoca l’angoscia. Visione di angoscia, identificazione di angoscia, ultima rivelazione del tu sei questo-Tu sei questa cosa che è la più lontana da te, la più informe. E’ di fronte a questa rivelazione tipo Mene, Tekel, Peres”, che Freud arriva all’apice di quel suo bisogno di vedere, di sapere…”3. Seguendo Lacan si può dire che questa percezione angosciosa e inattesa della carne è un momento fondamentale e seminale per l’impostazione successiva di Freud: “il suo ego – dice Lacan –è ridotto a mal partito davanti a questo spettacolo, l’ego regredisce – tutto il seguito dell’esposizione non fa che dircelo.” La gola di Irma, al di là dei suoi diversi significati interpretabili4 è un’immagine angosciante “che riassume ciò che possiamo chiamare la rivelazione del reale in ciò che ha di meno penetrabile, del reale senza alcuna mediazione possibile, del reale ultimo, dell’oggetto essenziale che non è più un oggetto, ma qualcosa davanti a cui tutte le parole si arrestano e tutte le categorie falliscono, l’oggetto di angoscia per eccellenza.” (p. 210); di fronte ad esso Freud cerca invano una risposta medico-scientifica e, non trovandola, svanisce in una ridicola “scomposizione spettrale” (altri medici prendono la parola, come in un consulto), ed è solo nel registro del simbolico, nella celebre intuizione della formula della trimetilamina che il sogno (e con esso il sognante) si ricompatta come parola, come Verbo.
Implicitamente, la lettura di Lacan è molto fenomenologica. Se il Körper, cioè, è qualcosa di ben identificabile, secondo l’ottica meccanicistica (da qui le interrogazioni etiopatogenetiche di Freud nel sogno) la carne è “informe”, “un brandello di materia che vive da sé”, “un organo senza corpo” (Ricci 2016), che si sottrae quindi ad un logos scientifico, è “la rivelazione del reale in ciò che ha di meno penetrabile, del reale senza alcuna mediazione possibile, del reale ultimo, dell’oggetto essenziale che non è più un oggetto”. La carne, che in tedesco è di genere neutro (das Fleisch), è quindi qualcosa di simile ai più noti oggetti originari, la cosa (die Sache), l’oggetto (das Ding): oggetti senza contorni che non possono essere percepiti visivamente, ma solo eideticamente attraverso una riduzione fenomenologica, immaginaria, attuata dal soggetto, sulla base di ciò che “sente”, “percepisce” (nel piacere e nel dolore), ma che non sa e non può definire.
E’ per questa sua oscurità che proprio negli ipocondriaci più di ogni altra tipologia di malati Calvi ritrova a più riprese l’epifania della carne, la sua emergenza percepibile dal terapeuta nell’incontro clinico, il “farsi carne” del soggetto. Ad esempio (Calvi, 2007 p.31) “l’ipocondriaco vive un rapporto esclusivo, autoerotico, col suo corpo. Ma la sua mano non accarezza, sviscera.” Tuttavia la metamorfosi ipocondriaca, che Frida ha comprensibilmente vissuto su di sè in determinati periodi, a seguito del suo grave trauma e delle complicazioni manifestatesi a cascata nel corso della sua vita, ed anche nelle depressioni secondarie ai traumi degli aborti ed alle complesse vicende sentimentali, non risolve affatto da sola tutta le possibilità di percezione fenomenologica della carne.
Se la proprietà del corpo/Körper , oggetto immediato ed esclusivo dell’attenzione e dell’opera della maggioranza dei medici, è quello di “funzionare” (ad esempio avendo organi sensoriali integri), quello del Leib è di “provare” in modo preciso o comunque definito, quello della carne è di sentire, godere, dolere in modo diffuso, difficilmente definibile e non memorizzabile (non mentalizzabile): i godimenti viscerali, ad esempio quelli sessuali, sono maggiori, nella loro oscurità, di quelli della pelle e del gusto, i dolori viscerali sono molto più insopportabili di quelli cutanei o degli arti, proprio per la loro mancanza di localizzazione precisa, di identificabilità. Fenomenologicamente infatti, scrive Henry (2000), “la carne si lascia descrivere come carne affettiva –non essendo che quella, una carne vivente che sente e prova se stessa in un’impressionabilità e una affettività consustanziale alla sua essenza” (p. 174). Se per i mali del Körper ci si può rivolgere ad un medico, per quelli del Leib si sanno cause e motivi, i piaceri e i dolori della carne non si possono che subire. E’ per questo potenziale di spossessamento della volontà e dell’identità, di mancanza di definibilità e trasparenza, che la carne è così regolarmente fonte di angoscia ed entra in, o alimenta così prepotentemente, quelli che definiamo “disturbi psichici”.
I “luoghi dove emerge abitualmente la carne”, scrive Calvi in un altro lavoro (1996) sono “il sesso, le funzioni intestinali, la malattia, l’invecchiamento, la forma fisica”. Questa frase va forse meglio specificata. Là dove essa si affaccia alla superficie del corpo (cavo orale, genitali e ano) (Körper), creando le cosiddette zone erogene, che assolvono funzioni vitali ma entrano anche nel circolo dei vissuti corporei intenzionali (Leib), la carne entra in una sfera intermedia che interagisce, appunto, con quelle del Körper e del Leib5: pensiamo che cosa succede, per fare un esempio banale, nel corso di una visita ginecologica nella quale la “carne” viene percepita come Körper dal ginecologo ma attiva vissuti soggettivi (imbarazzo, vergogna, timore) nella donna (Leib). Anche pensando alla sfera sessuale femminile, per una donna è radicalmente diverso offrirsi per amore (Leib), per denaro (Körper), oppure andare incontro ad un aborto e soffrire di una emorragia improvvisa(Carne). Ma in generale si può dire che a livello delle zone erogene la carne perde parte della sua opacità inquietante e si apre alla sfera intenzionale e relazionale; e che l’intera fenomenologia dell’amore potrebbe fondarsi su questa proprietà della carne di manifestarsi all’esterno e di sentire in virtù della presenza di un altro che, per la sua capacità di far(si) sentire, può diventare l’Altro, unico e insostituibile: l’amato. Non a caso detti e precetti tradizionali e religiosi indicano nella “comunione della carne” l’essenza del matrimonio, nei “peccati della carne” l’oggetto del vizio capitale della lussuria, della “compatibilità del sangue” l’essenza di un’unione sessuale felice, nella comunanza di carne e sangue la natura del legame filiale (“sangue del mio sangue”). Non c’è dunque amore, nessun tipo di amore, senza l’epifania della carne. E si può dire che sulla presenza o meno nella mente del soggetto, della carne, si giochi la differenza tra fare sesso e fare l’amore, dove quest’ultimo rinvia alla compresenza di emozioni differenziate e sublimate (Leib) rispetto alla mera sfera carnale,, mentre il primo unisce in sostanza carne e Körper.
Passando ad un’altra sfera, quella delle lacerazioni traumatiche dell’involucro cutaneo, compare quella che il linguaggio comune chiama “la carne viva”, proprio per metterne in risalto l’estrema sensibilità. Se la rappresentazione delle ferite, del sangue e del martirio ha tutta una sua tradizione soprattutto nella pittura sacra (martirio di Cristo e dei Santi), ed anche nella importante quanto poco valorizzata tradizione degli ex voto, tutti gli aspetti carnali dell’amore, oltre ad essere stati per millenni identificati come elementi di impurità e di interdizione da buona parte delle religioni, appartengono alla sfera dell’“antiestetico” (Ricci) , dell’osceno, del non guardabile, del non rappresentabile; sono proprio questi, infatti, i soggetti che indicano il limite tra rappresentazione artistica e rappresentazione pornografica (la pornografia da questo punto di vista può essere considerata un tentativo disperato di neutralizzare, normalizzare e padroneggiare il potere angoscioso della carne)6.
L’emergere della carne nella pittura di Frida Kahlo
Come si è già accennato è proprio la sfida del rendere estetico l’antiestetico, visibile l’osceno, significativo l’informe, intenzionale l’inerte attraverso la rappresentazione frequente e ripetuta, impudica e assolutamente naturalistica, degli organi interni, degli organi genitali, delle lacerazioni, delle fratture, delle amputazioni e, frequentissimamente, del sangue, a rendere così particolari i quadri di Frida Kahlo. In una breve carrellata si può partire dai due quadri che si riferiscono all’aborto del 1932 (Il letto volante e Frida e l’aborto), in particolare il primo dove gli organi interessati all’aborto sono estroflessi al corpo sanguinante di Frida come connessi da fili-capillari.
Ne La mia nascita, dipinto dopo l’aborto e la morte della madre, Frida viene partorita adulta dal cadavere della madre, in una rappresentazione cruenta e veristica del parto, forse la prima nella storia dell’arte occidentale. L’estroflessione degli organi, ad esempio del cuore, nel già citato Il mio vestito è appeso là del 1933 e Memoria del cuore, del 1937, è connesso ad un’imago corporea ridotta alle semplici vesti , ad un simulacro vuoto, privo di ogni interiorità, disincarnato. Questo espediente di essere ridotta a involucro, a sembiante, può essere letto come una metafora dello svuotamento affettivo, ma esprime anche con immediatezza fenomenologica lo stesso vissuto a livello carnale: essere priva di vitalità, senza organi vitali, col cuore estirpato (come nei sacrifici Atzechi).
Ne Le due Frida, iperbolica rappresentazione del doppio e della dissociazione dell’identità così caratteristica sotto molteplici aspetti in Frida, entrambe le figure hanno il cuore ben in mostra al centro del petto, ma uno è integro, l’altro è sezionato in due cosicchè la seconda Frida è tenuta in vita da una sorta di circolazione extracorporea che parte dalla prima e può solo pinzettare un’arteriola per evitare la definitiva emorragia.
Il sangue cola dai soggetti dipinti fin sopra le cornici sia in Qualche colpo di pugnale (1935), un quadro straziante che anticipa, così come The sex murder di Otto Dix, il tema attualissimo dei femminicidi cruenti o sadici.
Analogamente il sangue cola sulla cornice nel compostissimo Il suicidio di Dorothy Hale (1938-9), dove è rappresentato, come in un piccolo film, il suicidio per defenestrazione da un grattacielo di una donna il cui cadavere non le toglie la raffinata bellezza. Nei tardivi disegni, Autoritratto come una vulva (1947) e Il fenomeno imprevisto (nel Diario) sono invece i genitali in primo piano: nel primo Frida propone una totale identificazione del Sé col il proprio sesso, la propria carne, il proprio sentire, la propria Natura. Infine, è nel celebre La colonna rotta (1944) che Frida si mostra ancora una volta come mero sembiante corporeo vuoto, sostenuto da una colonna vertebrale/colonna dorica, spezzata e “contenuta”, come ad evitare la definitiva dissoluzione, da un corsetto ortopedico.
Si può quindi dire che, accanto ai molti autoritratti di Frida nei quali, pur nel contesto di simbologie, allegorie ed altri inserti surreali, sono il corpo o il volto ad essere al centro della rappresentazione, inserendosi a pieno diritto nella tradizione della ritrattistica, sono molti i quadri in cui questa tradizione viene rivoluzionata, perché la rappresentazione del corpo va di pari passo con la rappresentazione della carne, o, come nel caso dei simulacri vuoti, della sua assenza. Si può dire che i confini corporei di Frida appaiono o permeabili, o trasparenti, o svuotati di ogni consistenza, in un gioco espressivo che mostra, appunto, la centralità, se non il ruolo sovrastante, che la carne ha nella sua vita a sostegno o, al contrario, a minaccia della sua identità. La carne è, fenomenologicamente, l’a-priori del soggetto (Calvi), ma la carne di per sé non ha soggettività, è assenza di soggetto (Ricci). In quanto tale è la minaccia maggiore all’identità soggettiva alla quale possono andare incontro gli esseri umani dopo un trauma o per una malattia; si può anzi dire tout court che la percezione della carne è generalmente traumatica , e per questo mette in marcia tutta una serie di disturbi ansiosi, fobici, ossessivi, post-traumatici, ma, come nel caso di Frida, è anche la risorsa attraverso la quale ri-soggettivarsi, ripartendo dalla matrice informe ma vitale del Sé: ad esempio attraverso il sesso, com’è successo a Frida e come ampiamente diciamo nel capitolo del libro sull’immaginario post-traumatico (Dalle Luche e Palermo 2016).
Frida Kahlo e la tradizione della carne nell’arte
E’ chiaro che l’aver intrapreso gli studi medici e aver studiato anatomia (progetto fallito solo per la casualità dell’incedente, che trasformò imprevedibilmente il futuro medico in una pittrice), non può non aver influenzato queste particolarità espressive. Del resto, a parte la tradizione rappresentativa del martirio di Cristo o dei Santi, ed il breve periodo della moda seicentesca delle nature morte con animali morti e pezzi di carne, è proprio in campo medico che si è avuta la rappresentazione para-artistica della carne, sia pure attraverso la mediazione del corpo/körper, ad esempio nelle illustrazioni dettagliate degli atlanti di anatomia ma, soprattutto, nei preparati anatomici in cera, veri capolavori artistici, sia pure con finalità didattica, realizzati tra il 1775 e la metà dell’ottocento da vari modellatori come Clemente Susini, che si possono ancora oggi ammirare ad esempio al Museo di Scienze Naturale di Firenze. Ancor prima il maestro ceroplasta Zumbo aveva immortalato i cadaveri degli appestati e i pittori olandesi dipinto le dissezioni anatomiche (Rembrandt: La lezione di anatomia del dottor Tulp, 1632 e quella meno nota “del dottor Leyman “, 1656; ma anche Michiel van Mierevelt, la Lezione di anatomia del dottor Willem van der Meer 1617), nelle quali alla rappresentazione del corpo del cadavere si affianca la rappresentazione degli organi dissezionati, della carne di cui è fatto il corpo.
Contrariamente al tema dei cadaveri e delle figure morte che, a parte i temi religiosi, non ha mai cessato di avere i suoi cultori anche nell’800, tra i quali anche il Courbet autore di L’origine du monde (Lopopolo 2016), la carne ha trovato di nuovo la possibilità di esprimersi nella grande arte solo nel ‘900, ad esempio nell’opera di Herbert Boeckl, che negli anni ’30 riprende i quadri sulle lezioni anatomiche in chiave moderna, esaltando gli aspetti più raccapriccianti.
Vicino a certe opere di Frida, possono essere considerate alcune figure di Francis Bacon, nelle quali la deformazione del corpo allude all’esposizione della carne oppure dei tratti animali del corpo umano, come nei Tre studi per la crocifissione (1962), nei quali, in una sorta di escalation, si passa dalla rappresentazione di corpi sia pure scimmieschi a quella della carne sanguinolenta ed infine ai pezzi di macelleria.
Last but not least dobbiamo solo ricordare, ma questo aprirebbe tutto un altro discorso, come la carne abbia una sua importantissima rappresentazione nella storia del cinema, non solo perché è alla base del sottogenere splatter (che significa “spargere sangue”) del genere horrror7, ma anche perché più di recente anche autori importanti come Cronenberg in tutta la sua prima produzione8, Ferreri (La carne, 1991), Greenaway (Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, 1989), Lars von Trier (Le onde del destino, 1996; Antichrist, 2009; Nymphomaniac I e II, 2013) e Kim Ki-Duk (Primavera, estate, autunno inverno e ancora primavera,2003; Ferro3, 2004; Pietà,2012; Moebius, 2013) hanno voluto recuperare la potenza estrema del dolore e del piacere della carne per “far sentire” allo spettatore cinematografico, per la prima volta, il potere della visione di immagini verso le quali normalmente tutti noi ci difendiamo drasticamente.
In Frida, che a questo punto dobbiamo considerare un’antesignana anche del futuro sviluppo del cinema, la rappresentazione della carne è connessa intimamente alla rappresentazione di sé e dei propri vissuti, del corpo, delle funzioni e dei vissuti del corpo femminile, dell’intenzionalità corporea di tutte le donne che, forse, hanno per natura una maggiore prossimità alla carne di quanto avvenga negli uomini, i quali la scoprono spesso solo nei disastri della guerra o degli incidenti, se non nelle oscurità delle malattie degenerative o nei fantasmi dell’ipocondria. In Frida il carattere perturbante delle apparizioni della carne è in qualche modo addolcito dal percorso di decifrazione ermeneutica, che consente di individuarle come basi corporee di un ragionamento che si potrebbe anche definire, in senso lato, autoterapico se non addirittura filosofico; ed è questo che fa della sua opera una figura centrale non solo nell’ambito della storia dell’arte e della consapevolezza femminile (e femminista), ma anche della fenomenologia del corpo.
Note:
1Nella Bibbia, come sintetizza mirabilmente Galimberti, “il corpo dell’uomo è vivificato dalla sua ruah o spirito di Dio” , ha vita propria in quanto è animata dalla ruah: di per sé è il regno della morte, caducità, .
2Entrambe le radici sono presenti nell’opera di Frida Kahlo, medico mancato e atea materialista (comunista) con fortissime radici cattoliche, componenti che negli anni ’40 vengono dialetticamente sintetizzate nel suo peculiare panteismo, esemplificato soprattutto dal quadro “L’amoroso abbraccio dell’universo” (1949).
3Mene, Tekel, Peres, si tratta di una citazione biblica riferito all’intervento divino contro i re persiani Nabucodonosor e Baldassàr. Daniele le interpreta così: “Mene: Dio ha coniato il tuo regno e gli ha posto fine; Tekel: tu sei stato pesato sulle bilance e sei stato trovato insufficiente; Peres: il tuo regno è stato diviso e dato ai Medi e ai Persiani. “ Metaforicamente si tratta di un vissuto di impotenza di fronte ad un fatto inatteso.
4 E’ noto che nella bocca di Irma si condensano vari significati secondo la interpretazione di Freud “oggetto primitivo per eccellenza, l’abisso dell’organo femminile da cui esce ogni vita, sia la voragine della bocca in cui tutto è inghiottito, come pure l’immagine della morte dove tutto termina, a causa del rapporto con la malattia della figlia…” (Lacan,pp. 210).
5“Il corpo è la trama in cui i fili dell’esistenza e quelli della carne si raccolgono per esprimere quell’unico senso che poi la presenza rivela.”
6Nell’opera di Sade, ed in particolare nel suo monumentale “Le 120 giornate di Sodoma” la rappresentazione iperbolica della carne va ben oltre la pornografia, assumendo un valore di rovesciamento radicale della dottrina cristiana che, appunto, vedeva nella carne materiale, qualcosa di morto, caduco e privo di valore. Qui siamo invece di fronte a veri rituali di valorizzazione della carne di per sé, soprattutto come fonte di piacere per chi ne fa oggetto di pratiche sessuali che si estendono largamente al di fuori dei confini delle zone erogene.
7 Gli storici del cinema fanno risalire il genere alle produzioni a basso costo degli anni ’60 come Blood feast di Herschell Gordon Lewis. Trovo estremamente interessante che la trama di questo filmetto individui come movente del serial killer, la volontà di riproporre un sacrificio rituale che avrebbe dovuto ridare vita alla dea egizia (in realtà mesopotamica) Ishtar: interessante perché ricollega alla visione traumatica della carne i temi antropologici del sacrificio e del cannibalismo.
8Siamo stati affascinati molti anni fa, come ora da Frida, dalla lunga serie dei primi film di David Cronenberg, considerato all’epoca il maestro dell’horror filosofico, il profeta della nuova carne, il cui cinema trovava appunto la sua più evidente peculiarità espressiva nelle trasformazioni psichiche concomitanti o susseguenti all’emergenza della carne, spesso nel contesto di stupefacenti metamorfosi corporee rispetto alle quali il mondo medico-scientifico resta impotente (Dalle Luche e Barontini, 1997).
Bibliografia:
Calvi L. (1983) Living body, flesh, and every day body: a clinical-noematic report. In: A.T.Tymanieniecka (ed), Analecta Husserliana, Vo. XVI,203-10.
Calvi L. (1996) Il fremito della carne e l’anancastico. Contributo alla comprensione degli ossessivi e dei fobici. In: Ballerini A, Callieri B: breviario di psicopatologia. Feltrinelli, Milano.
Calvi L (2007): Il consumo del corpo. Esercizi fenomenologici d’uno psichiatra sulla carne, il sesso, la morte. Mimesis.
Calvi L. (2013): La carne, la scelta, l’epoché. In: Calvi L.: La coscienza paziente, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013, pp. 33-43.
Dalle Luche R., Barontini A. (1997): Transfusioni. Saggio di psicopatologia dal cinema di David Cronenebrg. Mauro Baroni Editore, Viaregio.Lucca.
Dalle Luche R., Palermo A. (2015): Traumi ed identità in Frida Kahlo. Un’analisi dagli autoritratti e dai diari. Psichiatria e psicoterapia, Vol. XXXIV, 2:107-139.
Dalle Luche R., Palermo A. (2016): Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo. Mimesis, Milano.
Galimberti U. (1983): Il corpo. Feltrinelli, Milano.
Henry M.: Incarnation. Une philosophie de la chair. Seuil, Paris, 2000.
Lacan J.(1991): Il seminario. Libro II L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-5). Ed. it a cura di G.B.Contri, Einaudi, Torino.
Lopopolo D.: La morte nell’arte. Astenersi impressionabili. http://www.spettakolo.it/2016/03/28
Ricci G.: Il corpo e la carne. Sui disegni di Francesca Magro. www.giancarloricci.net/il-corpo-e-la-carne/2016
Sartre JP (1942) L’essere e il nulla. Ed. it Il Saggiatore, Milano 1968.
Arnaldo Ballerini è stato un illustre rappresentante ed autore della corrente europea della Psichiatria fenomenologica. Ha conosciuto e lavorato con i maggiori esponenti di questo indirizzo, da Alfred Kraus a Gerd Huber, da Wolfgang Blankenburg a Kimura Bin, dei quali ha introdotto, in Italia, il pensiero e le opere.
Il debito di noi allievi, nei suoi confronti, è letteralmente incalcolabile. A partire dagli anni Novanta del Secolo scorso, ci ha raggruppati intorno a lui, con fervore, rompendo un isolamento ed una marginalità decennali. Per nessuno, come per Arnaldo, vale il verso dantesco : “Raunai le fronde sparte”. Ha fondato, nel 1994, la prima Società Italiana per la Psicopatologia Fenomenologica, da cui sono nati congressi, pubblicazioni, corsi. Indimenticabile il suo magistero a Figline Valdarno, dove, per quasi venti anni, Arnaldo Ballerini, vero genius loci, ha aperto le porte della sua casa a generazioni diverse di giovani psichiatri e psicologi, che affluivano da tutta Italia per apprendere da lui l’arte di incontrare gli ammalati, amandoli nei loro mondi, senza temere i loro inferni. Ma il suo slancio è andato anche oltre la Psicopatologia Fenomenologica tradizionale. Nel 2010, in un’età alla quale per molti altri è più che dignitoso il riposo, ha fondato, con i suoi allievi più stretti, la Scuola di Psicoterapia Fenomenologica di Firenze, riconosciuta dal MIUR nel 2015, forzando un limite storico ed epistemologico, di fronte al quale tutti i suoi maestri e colleghi avevano segnato il passo. Ma di Arnaldo, al di là della grande statura clinica e scientifica, a chi lo ha conosciuto, da amico, da paziente, da allievo, rimangono la straordinaria umanità, l’ironia, pungente e mai graffiante, la conversazione brillante, gli orizzonti vastissimi della sua cultura, le domande irrispondibili, la gioia di vivere la vita in tutte le sue accezioni, l’entusiasmo appassionato, l’infaticabilità, lo sguardo, sempre aperto alla speranza.
Grazie Arnaldo, di cuore, per tutto quello che hai fatto per ognuno di noi, per tutta l’immensa e difficile eredità che ci hai lasciato. Ti porteremo nel cuore e sarai vivo, accanto e dentro di noi. Ogni volta che incontreremo un paziente, ci domanderemo tu cosa ne pensi. Ad ogni discussione teorica, ci domanderemo la tua posizione; ogni volta che parleremo di Fenomenologia, utilizzeremo le tue parole e ci arrampicheremo sui tuoi concetti. Grazie, di essere rimasto così vivo dentro di noi, in un dialogo senza fine, aperto, anche al futuro di coloro che verranno, ai quali non smetteremo mai di raccontare come tu vedevi, come tu sentivi, come tu vivevi e come tu ci trasmettevi l’infinita bellezza del mondo.
Gilberto Di Petta Chiesa della SS.Annunziata Firenze,22 settembre 2015
La direzione psicopatologica.
La varietà delle diverse anime della psicopatologia non ha consentito sin ora di creare scuole unificate, ma solo movimenti e “percorsi di lettura”. Per il loro spessore critico e culturale i contributi delle diverse correnti della psicopatologia fenomenologia Ovviamente questo processo non può sempre avere la stessa, talora insostenibile, intensità, e quindi nella pratica ha sofferto di attese, interruzioni, cedimenti a prassi più convenzionali, abituali, codificate e reificate. Protocollari. La psicopatologia fenomenologica invece si è costituita in un corpo eterogeneo di conoscenze, ignorando le quali si può correre il rischio di ridurre la psichiatria a un sapere “mindless” (A. Ballerini). La conoscenza della psicopatologia fenomenologica favorisce il riconoscimento della presenza di presupposti epistemici molteplici e differenziati alla sofferenza mentale, evitando ogni cristallizzazione teorica riduzionistica e dottrinale. Come concludono Gross e Huber (1993), “Noi abbiamo bisogno della psicopatologia fenomenologica, in accordo all’assioma: “First things first”. Non c’è psicopatologia, non c’è psichiatria e forse nemmeno possibile psicoterapia, senza questa considerazione, preoccupazione, questa “cura” dell’esperienza interna dell’uomo, paziente e curante, psicopatologo. E’ grazie alla privilegiata attenzione alle esperienze interne della persona così come alle modalità costitutive della presenza umana che la psicopatologia fenomenologica può rappresentare una sorta di lingua comune, di koiné, della psichiatria nelle sue diverse declinazioni, dalla descrittiva a quella terapeutica (Arnaldo Ballerini).
Singolarmente antica suona allora l’osservazione di John Strauss che ha scritto: “Ci sono molte cose che i pazienti stanno tentando di dirci sulla loro esperienza soggettiva e che sistematicamente non riusciamo ad ascoltare”. Ecco, è questo “ascoltare (…) l’esperienza soggettiva” il punto zero, ma anche il punto di partenza di ogni approccio tendenzialmente fenomenologico, che del resto ogni Servizio di Psichiatria che funzioni realizza (certo in modo diversificato) nella prassi quotidiana, mettendo da parte ogni riduzione, pretesa esplicativa ed ogni teoresi assolutizzante.
La ricerca attuale. Neuroscienze e psicoterapia fenomenologica.
Negli ultimi anni si è assistito ad un significativo, sorprendente e fruttuoso avvicinamento dei metodi fenomenologici ad alcune acquisizioni delle neuroscienze e delle scienze neurocognitive, tanto che è stata coniata la dizione di “neurofenomenologia”. Ulteriore e non trascurabile ragione dell’interesse per la psicopatologia fenomenologica è la sua capacità di far emergere in modo profondo i fondamenti di ogni prassi psicoterapeutica: la sfera empatica e dialogica dell’afferramento eidetico, la disposizione all’accoglimento incondizionato dell’altro secondo i modi propri dell’incontro io-tu e dell’illimitata apertura al senso delle esperienze psicopatologiche appaiono infatti i momenti fondativi di ogni psicoterapia non comportamentale e non manipolativa. Partendo dal concetto principe di epoché, quella del paziente e quella dello psicopatologo, dai movimenti prassici e mimetici dell’empatia, spogliata delle sue significazioni più banali, la psicopatologia fenomenologica appare come base imprescindibile, punto di partenza e d’arrivo di una psicoterapia che si sappia fare indagine sull’uomo, dell’uomo e del suo mondo, di quello dello psicopatologo. Alla ricerca non di nuove e creative diagnosi ma delle sproporzioni, dell’obliquo, del sentire obliquo che in fondo è solo umano. Indagine sulla persona, la persona dello psicopatologo e del paziente. Perché non è strada, quella che si fa da solo.
Le nostre direzioni di ricerca
Siamo convinti la Psicopatologia Fenomenologica possa mantenere la propria vitalità e utilità puntando verso alcune direzioni di ricerca:
Piuttosto che mirare al tradizionale incasellamento nosografico, mirare alla individuazione di ordinatori psicopatologici di livello superiore, tali da ampliare l’orizzonte in cui si colloca la ricezione dei singoli fenomeni che vengono sussunti in un contesto più ampio, che rappresenta in definitiva una donazione di senso al singolo fenomeno;
La definizione di possibili terreni di incontro e di articolazione con la ricerca di ordine biologico, incontro che è difficile possa avvenire sulla base di quadri nosografici convenzionali.
Apertura al mondo delle tossicodipendenze sospendendo i pregiudizi e gli atteggiamenti moralistici
Psicopatologia fenomenologica e psicoterapia: propedeutica o cos’altro? Contribuire a porre le premesse teoriche affinché l’atteggiamento fenomenologico favorisca un approccio psicoterapico al mondo delle psicosi e delle personalità abnormi.
Dobbiamo dunque augurarci che la curiosità, lo spirito di osservazione, la capacità di avvicinarsi alla persona, restino fondamentali per la prassi psichiatrica, ed in questa direzione il progetto della Psicopatologia può portare un decisivo contributo, fatto come è di tensione conoscitiva ed assieme di pazienza e di attesa, di tolleranza alle domande che continuamente si presentano nell’ascolto dei mondi psicopatologici, resistendo alla tentazione di sovrapporre stereotipi precostituiti all’esperire dell’Altro
Congressi , Simposi e Seminari
In questi anni, la Società ha promosso e realizzato una grande quantità di iniziative nazionali e internazionali:
Si ricordano:
“Il senso della psicopatologia” – Firenze, 1996.
“Paradigmi di riferimento in psicofarmacologia. Nosologia o psicopatologia?” – Napoli, 1997.
“I servizi di psichiatria hanno ancora bisogno della psicopatologia?” – Reggio Emilia, 1997.
“La rabbia e il furore: dalla storia all’antropologia” – Città di castello, 1997.
“La dimensione negativa della schizofrenia” – Firenze, 1998.
“Percorsi di vita o percorsi di malattia? I disturbi di personalità nella pratica dei servizi” – Reggio Emilia, 1999.
“L’area borderline. Fenomenologia e terapia”. IV congresso Nazionale Società Italiana per la Psicopatologia – Abano Terme (Pd), 28.10.2006.
Dall’anno 2000 la Società Italiana per la Psicopatologia organizza un corso residenziale di psicopatologia, oggi arrivato all’undicesima edizione, frequentato negli anni da centinaia di giovani psichiatri e psicologi e tenutosi per le prime edizioni a Pistoia e da qualche anno a Figline Valdarno (Fi). I programmi dei primi tre anni:
Sul comprendere Psicopatologico
I Corso Residenziale di Psicopatologia Fenomenologica
17 e 18 Novembre 2000 SUL COMPRENDERE PSICOPATOLOGICO
26 e 27 gennaio 2001 PSICOPATOLOGIA E NOSOGRAFIA
23 e 24 Febbraio 2001 LA PSICOSI NASCENTE
30 e 31 Marzo 2001 IL DELIRIO
27 e 28 Aprile 2001 L’AUTISMO
Sul comprendere Psicopatologico
II Corso Residenziale di Psicopatologia Fenomenologica
1 e 2 Febbraio 2002 MALATTIE, TIPI,MODELLI DI REAZIONE IN PSICHIATRIA
8 e 9 Marzo 2002 DELIRIO E SCHIZOFRENIA
12 e 13 Aprile 2002 IL “VERO” E IL “FALSO” NELLA CATEGORIA DISTURBI DI PERSONALITA’
10 e 11 Maggio 2002 CORPO E CORPOREITA’ IN PSICOPATOLOGIA
7 e 8 Giugno TEMPORALITA’ E PSICOSI AFFETTIVE
Sul comprendere Psicopatologico
III Corso Residenziale di Psicopatologia Fenomenologica
21 e 22 febbraio 2003 IMMAGINI DELLA FOLLIA E SAPERE PSICHIATRICO
7 e 8 marzo 2003 ANAMNESI E NARRAZIONE
4 e 5 aprile 2003 ANGOSCIA, PANICO, FOBIE
30 e 31 maggio 2003 DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’
19 e 20 settembre 2003 LUOGHI E TEMPI DELLA CURA
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